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Num. 19028
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The Last Duel
di Ridley Scott
USA/GBR 2021, 152’
I film storici di Ridley Scott sono un’accurata mistura di pacchiani cliché hollywoodiani e ricostruzioni accademiche. Se quel fenomeno de Il gladiatore (GBR/USA, 2000, 170’) resta mediocre come rappresentazione dell’Impero Romano (famoso il «They do now» in risposta al consulente storico che sul set gli diceva che i romani non usarono mai frecce infuocate), è dai tempi de Le crociate (USA/GBR, 2005, 194’) che Scott ha realizzato come la sospensione dell’incredulità sia favorita da un’alternanza fra luoghi comuni familiari allo spettatore e rotture degli schemi che rinsaldano l’illusione di spiare in una finestra su un mondo realmente esistito.
In questo The Last Duel, quindi, ritornano le frecce infuocate, i costumi fantasy dalla cintola in su, il medioevo come epoca cupa «a saturazione -50» in cui la religione è un’extrema ratio e non una presenza quotidiana, un’era di diplomatica ipocrisia ottocentesca e di misoginia tanto rampante che una dama che si occupi del suo castello è descritta come se arraffasse una selvaggia indipendenza e non, sapete, come stesse adempiendo ai suoi banali doveri.
D’altro canto, quelle frecce rimbalzano su armature che finalmente funzionano, lo stile di combattimento si informa sui trattati medievali e il duello finale ripercorre pedissequamente il resoconto storiografico. I costumi sono più affinati nei dettagli (ci voleva tanto a togliere i tacchi dagli stivali?), gli interni sono illuminati a candela e non con torce insensate… E su tutto spicca la ricerca di una gestualità al tempo stesso costruita ma abituale, realistica. I cavalieri vengono ordinati non con il tocco della spada sulle spalle, ma con lo schiaffo – che dal sonoro manrovescio de Le crociate si è evoluto in una pacca rituale.
A fronte di questo sincero amore per il cinema, del coraggio di una violenza viscerale, dell’assenza di negri, e di far funzionare un dramma storico-sperimentale nel momento di massima crisi per il cinema d’intrattenimento, alla veneranda età di ottantaquattro anni, Ridley Scott merita la nostra ammirazione, quale che sia l’oggetto del contendere.
Questo oggetto è il film.
Parte da una storia vera, già ammodernata da un romanzo del 2004, che tratta dell’ultimo duello ordalico, svoltosi a Parigi il 28 Dicembre del 1386. La trattazione è palesemente resa possibile dalla popolarizzazione del concetto già svolta da Il Trono di Spade (Benioff&Weiss, USA 2011), così come il ritorno di Scott al medioevo sfrutta il buco lasciato dalla ignominiosa defezione della serie tv dal panorama culturale.
Un cavaliere accusa uno scudiero di avergli stuprato la moglie, e il giudizio sulla colpevolezza è rimesso a Dio. Il film non perde tempo a mettere in dubbio la figosità del criterio: se questo duel è stato effettivamente il last, una ragione teologica ci sarà pur stata. In tempi storici, l’ultimo vero apologeta del combattimento giudiziario fu Dante Alighieri (iustitia in duello succumbere nequit) che contestava l’idea papale secondo cui un simile canone fosse empio, in quanto imponesse a Dio di manifestarsi tramite un miracolo. Tutto questo non interessa alla macchina da presa, che sposta invece il suo occhio sullo studio dei personaggi e su una ambiziosa ricostruzione dei fatti.
Vediamo i primi due atti della storia non una, non due, ma addirittura tre volte, da tre punti di vista differenti: il cavaliere, lo scudiero, e infine la moglie. Il terzo atto del suo POV funge da tale per tutti i personaggi.
Se i primi due passaggi sono entusiasmanti, così come ci spronano a cercare le piccole differenze tra le versioni, il problema salta fuori nella terza parte.
Non solo siamo costretti a vedere le stesse vicende ancora una volta, ma dobbiamo farlo con un occhio dichiaratamente superiore: una didascalia ci informa che la versione a cui stiamo per assistere è LA VERITÀ, senza se e senza ma. Noi prodi cineasti siamo arrivati settecento anni dopo i fatti e abbiamo capito come è andata, che nessuno provi a farsi un’idea propria.
Questa idea, fallata già nelle primissime fasi di allestimento della trama, non solo rende inutile la prima metà del film, ma cambia anche il tema in corso d’opera. D’improvviso, non siamo più chiamati a interrogarci sul nostro senso del dovere, a meditare sull’ignoranza, sulla nostra capacità individuale di percepire la realtà senza filtri - ma a trangugiare passivamente il vangelo di Mary Sue, intollerabile sino all’ultima goccia perché, naturalmente, lei è un angelo senza macchia, depositario della verità in un mondo di uomini che non si curano di ascoltarla.
Una sorta di #Metoo medievaleggiante, tanto noioso per come non si disturba a pervertire la ricostruzione storica ogni volta che può tirare acqua al suo mulino.
Per dirne una, la medicina medievale non riteneva possibile che si potesse rimanere incinta dopo uno stupro – ergo lo stato interessante di Marguerite venne messo agli atti ma mai discusso in sede di tribunale.
Questo quadro già saturo continua a riempirsi, con l’effetto che iniziamo a provare nostalgia per la prima parte del film, il quale le prova tutte per farci stare antipatico Ser Jean de Carrouges: ce lo racconta rigido, noioso e non ricco; ce lo mostra preso per il culo dai camerati e incapace di dare orgasmi alla povera Marguerite; arriva persino a farlo interpretare da Matt Damon – eppure niente, resta il personaggio più amabile perché il più umano, il più medievale: dice sempre quello che pensa, è inadeguato, combatte per il proprio posto nel mondo e soprattutto non è una cazzo di santarellina e nemmeno uno stupratore pieno di sé.
Eppure, al di là di ogni tentativo postfemminista, sul finale la natura del film prende il sopravvento sul film stesso: è una storia di spadoni e cavalli, quindi il durello per le mazzate che ci ha attirati al cinema trova soddisfazione nel duello eponimo. La camera insiste sul viso teresino di Marguerite, come a ricordarci di stare in pena per lei, ché questa è la SUA storia, ma è tutto inutile: la violenza ha le sue ragioni che la ragione non conosce. Noi vogliamo solo vedere la gola di Adam Driver che scoppia come un acino d’uva matura.
Usciamo dalla sala prima del film, che resta ancora nel buio a farci la morale mentre noi googliamo «buy medieval swords online»
Genere: Storico
Ebrei: No
Struttura: Tre atti, multilineare*, nonlineare**
Tema: La verità trionfa?
Arco di trasformazione: Disonore>onore/Fortuna>caduta/Oppressione>liberazione
Ghost: Morte e miseria della famiglia/Nessuno/Nessuno
Incidente scatenante: Incontro con Marguerite, 16’/Missione del Conte, 49’/Festa, 89’
Primo turning point: Incrinamento dell’amicizia, 19’/Citato in giudizio, 53’/Gestire il castello, 93’
Middle point: Festa, 28’/Festa, 61’/Struppo, 107’
Secondo turning point: Sfida a duello, 43’/Sfida a duello, 83’/Sfida a duello, 124’
Climax: Duello, 133’
Momento kino: Secondo stupro
Tette: In costume
*Multilineare è la struttura che segue più storie o più punti di vista, ciascuna declinata internamente secondo i Tre Atti. Nonlineare è la struttura che non segue l’ordine cronologico degli eventi. Il più famoso esempio di multilineare nonlineare è Pulp Fiction
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